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Ivan Di Marco

La morte e le sue forme sono protagoniste in Shōgun

Quando le persone sono disposte ad affrontare il pericolo,

dimenticano la paura della morte.

Quanto è grande il potere di dare gioia alle persone.

Le stimola a fare tutto il possibile!


Recita così uno dei Commentari dell’I Ching, l’antico classico cinese dei mutamenti. Da testo divinatorio, grazie alla rivisitazione di Confucio, diviene una vera e propria bibbia filosofica anche per taoisti e samurai; e se i primi risultano meno familiari perché votati a seguire il Tao (la Via) senza interferire con gli affari del mondo, i secondi li conosciamo bene: ancora meglio dopo il ritorno in forze con Shōgun, ora una miniserie in onda su Disney+.


“Pericolo” e “morte” sono capisaldi nell’adattamento dell’omonimo romanzo di James Clavell (terzo capitolo della Saga Asiatica); d’altra parte la gioia è più difficile da incontrare, specie nel Giappone feudale in preda a un pieno rivolgimento sociopolitico. A meno che una narrazione non tenga insieme perfino gli aspetti più inconciliabili; una narrazione che, nelle parole del Libro dei Mutamenti, faccia dimenticare la paura della morte e stimoli a fare qualunque cosa pur di raggiungere il proprio obiettivo. Ma andiamo con ordine.


Fin dai primi minuti di Shōgun, il sacrificio rituale dei samurai (seppuku) appare come un vero e proprio leitmotiv. Non c’è fallimento che non sia accompagnato da disonore e non c’è disonore che non richieda la morte volontaria per essere emendato. Questa è una prima forma di narrazione sulla morte: una vita disonorevole non è degna di essere vissuta. La coscienza occidentale può inorridire o sorridere davanti a tanta serietà; eppure basta guardare qualche anno indietro per scoprirci dallo stesso lato della storia…




Nel suo ultimo libro, Narrare l’Italia, lo psicoanalista junghiano Luigi Zoja racconta il flirt con la morte del Risorgimento come anticamera del fascismo. Ne è un esempio la propaganda sabauda volta a condurre gli italiani all’Unità; manovra attuabile solo con l’esaltazione del sacrificio eroico, come testimonia il bando del Battaglione italiano della morte; documento in cui si chiedeva di “combattere e morire per la totale indipendenza dell’Italia” – già dai quattordici anni, col consenso dei genitori.

Ma torniamo nel Sol Levante. Perire in battaglia o per harakiri sono le conseguenze della sconfitta. Cionondimeno, in Shōgun ci sono momenti in cui la vita sembra mietuta, per così dire, a caso, inutilmente. Ed è in queste occasioni che una narrazione adeguata sulla morte può fare tutta la differenza fra perdere una battaglia o l’intera guerra; quantomeno per Yoshi Toranaga, il personaggio ispirato al primo Shōgun giapponese (Tokugawa Ieyasu) cui si deve il nome della serie.


Uno scambio di persona, un brutto tiro della sorte, un tradimento inaspettato: per un vero signore della guerra tutto ciò è pane quotidiano; e adattarsi ai mutamenti, senza perdere di vista l’obiettivo finale, è l’unica salvezza per il carismatico feudatario del Kanto. Anche quando tutto sembra perduto, anche quando i suoi stessi vassalli lo credono sconfitto, Toranaga non abbandona mai la partita. Nel lungo gioco, sa che usare tutti gli abili espedienti di cui dispone è l’unico modo di trasformare la debolezza in forza: così il lutto del figlio, da caduta depressiva si fa occasione per guadagnare tempo; il seppuku del suo generale più anziano, da anticamera della resa diventa esca per il nemico; finché il martirio di una preziosa amica non lascerà il suo avversario privo di alleati.


Quello che a posteriori potrebbe sembrare il disegno di uno spietato mastermind, in realtà è il prodotto di una manipolazione, non tanto della realtà, quanto del suo significato. Toranaga-sama non ha fatto altro che applicare i versi di Confucio che aprono l’articolo: ha capito che con la giusta narrazione tutto diventa possibile. Ma ciò significa anche che tutto è lecito? Potrebbe dare questa impressione il dialogo finale, quando il signore del Kanto rende nota la sua prospettiva al servitore più “eclettico” (e tragicomico), Kashigi Yabushige…


Forse non ci è dato saperlo: croce e delizia di ogni racconto è il suo valore metaforico. Si possono leggere Shōgun e l’ascesa di Yoshi Toranaga in molti modi; anzi, già la rappresentazione che viene data della morte è una bestia bifronte: la facilità con cui gli uomini sono pronti a sacrificarsi potrebbe suggerire un disprezzo della vita, più che una ricerca di senso al di là delle avversità. Così la guerra finirebbe col diventare una specie di perversione – la “necrofilia” e il “pedo-eroismo” risorgimentali di cui scrive Zoja.


Ma allora qual è la vera narrazione? Cosa distingue il piacere del martirio dal buon uso della morte? Dilemma insolubile? Forse sì, perché c’è sempre un po’ di mistero nell’animo degli esseri umani: se solo potessimo leggere direttamente l’ultima pagina della nostra storia… Invece al massimo possiamo arrivare all’ultimo episodio di Shōgun e, perfino là, soltanto immaginare cosa avremmo fatto al posto di Toranaga: avremmo avuto chiare le nostre intenzioni fin dall’inizio? O solo alla fine avremmo compreso i borborigmi del nostro cuore? Insomma, diventare Shōgun è una scelta oppure un destino? A ognuno la sua narrazione.

 

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