"Ho ucciso un uomo", la storia di Carmine da Rebibbia alla nuova vita
«Venti anni fa ho ucciso un uomo». Inizia così il racconto di Carmine, una persona detenuta nel carcere di Rebibbia. In questi 20 anni si è diplomato due volte e ha aiutato, come volontario, le persone del reparto psichiatrico. Oggi è in semilibertà e, anche se di notte torna a dormire a Rebibbia, ha un lavoro, una compagna e una figlia che nel frattempo è diventata grande. Abbiamo fatto una passeggiata insieme. Abbiamo parlato del drammatico problema dei suicidi e delle condizioni carcerarie ma anche della sua storia di speranza.
Carmine era proprietario di un minimarket in provincia di Napoli. Proprio lì, nel maggio 2005, in seguito ad una colluttazione, uccide un suo amico. Da quel momento comincia quello che lui ha chiamato «l’inferno» di Poggioreale che poi lascia per essere trasferito all'istituto penitenziario di Viterbo e infine a Rebibbia. «Nelle celle ci possono essere anche 7,8 persone» e nessuna privacy per andare al bagno. «Oppure ci sono celle di quattro metri quadri con due persone». In spazi così piccoli e affollati si può litigare per un nonnulla «anche per un ripiano del frigorifero». Eppure, nonostante le condizioni così estreme, Carmine imputa soprattutto ad altri fattori l'escalation dei suicidi.
«Il problema più grande è quello di tagliare i ponti con l'esterno, con la tua famiglia». Proprio quello che gli è successo: «I miei familiari li sentivo un volta a settimana: un martedì ho telefonato a mia sorella e mi ha detto che nostra madre era morta...Così è successo anche con mio padre. In entrambi i casi ho chiesto di poter andare ai funerali ma mi è statto negato il permesso...eppure la legge italiana lo consente». Ecco come si entra in un vortice di disperazione:«La mia reazione? Piangevo. Piangevo sotto la doccia per non farmi vedere...Io ce l'ho fatta a superare quei momenti...ma non tutti ce la fanno. Ecco perché ci sono i suicidi». Il problema è la solitudine, è la «mancanza di umanità» è che «nessuno ti chiama per nome perché negli istituti penitenziari tutti ti chiamano per cognome».
Gli anni intanto trascorrono. Fuori la vita scorre e la figlia di Carmine diventa grande. Ma la vita scorre anche all'interno. «Non mi sono perso d'animo, mi sono diplomato due volte, ho fatto teatro e poi a Rebibbia sono diventato volontario per i detenuti del carcere psichiatrico. Li aiutavo nelle piccole faccende quotidiane, parlavo con loro, li lavavo». Poi la tragedia. «Quando sono stato trasferito in un altro reparto, un detenuto che aveva problemi psichici si è suicidato. Un momento terribile...» che accade mentre per Carmine sta iniziando un nuovo percorso: il lavoro e poi il regime di semilibertà.
«La prima volta che sono uscito dopo tanti anni è stata un'emozione fortissima...Vedere quel cancello che si apre mi è sembrato incredibile».Da allora inizia il periodo delle tante nuove prime volte. «Prendere la metro, tornare a guidare, andare a mangiare una pizza e scegliere quello che vuoi». Oppure «Andare a comprare un paio di scarpe...In carcere me le portavano i miei familiari, quando sono tornato per la prima volta in un negozio è stato bellissimo». E poi «sono andato a vedere il Colosseo con mio nipote e sono tornato al mare». Certo «le difficoltà sono state tante: nessuno ti aiuta, nessuno ti prepara ad un mondo che nel frattempo è cambiato proprio come il telefono che è diventato uno smartphone e che non sapevo usare». Ma il problema è anche relazionale:«Provavo un certo imbarazzo all'inizio a stare vicino alle persone come capitava nei mezzi pubblici...Oppure ad avere a pochi centimetri una donna...Per anni avevo visto solo la psicologa a molti metri di dstanza e con un vetro a separaci».
Oggi Carmine esce la mattina alle otto da Rebibbia, si reca a lavoro, trascorre del tempo con la sua compagna e rientra in carcere alle 23. Si sposta a bordo dello scooter che è diventato uno strumento di libertà. Si evince dal suo entusiasmo quando ne parla raccontando la sua routine. Il giorno in cui ci siamo incontrati era particolarmente contento: poche ore prima aveva firmato il contratto di lavoro a tempo indeterminato. Come in una storia karmica, Carmine è diventato dipendente di un supermercato. Dove tutto è iniziato due decenni fa, oggi tutto ricomincia. La vita fuori è una continua scoperta. C'è il presente ma c'è anche il futuro, c'è la volontà di costruire. E c'è la possibilità di tornare ad essere chiamato per nome. «Porterò sempre dentro di me quello che ho fatto 20 anni fa- dice commosso - ma non sono il mio reato».
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