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Ivan Di Marco

Fumetti, antichi dèi, nuove maschere: l’umanità in cerca di super

La vulnerabilità ci lega agli eroi dei fumetti. Tanto più i buoni sono “grigi”, tanto più si accende la loro stella

fumetti

Se c’è un prodotto editoriale che in poco più di un secolo è riuscito a passare dalle stalle alle stelle, quello è sicuramente il fumetto. Racconti in cui l’arte della sceneggiatura incontra la destrezza grafica per dare vita a un nuovo e potente ibrido; un meticcio vorace, che può mangiare inchieste, racconti, romanzi, film e farne vignette. Così come la cultura pop è sempre affamata di ricchi graphic novel da lanciare in orbita, su fra gli astri hollywoodiani.


Da lettore appassionato e psicologo del profondo, per quanto trovi affascinante questo processo di traduzione e ritraduzione a cui si presta il fumetto, mi attira ancora di più la sua doppia natura: un involucro all’apparenza puerile che talvolta cela insospettabili verità. E accorgersene può essere un vero shock, un po’ come quello che deve aver provato lo scrittore e fumettista Gianluca Morozzi quando si è imbattuto per la prima volta in un certo spara-ragnatele. Ha cinque o sei anni, si aspetta in regalo il nuovo numero di Braccio di Ferro da parte del nonno; invece resta deluso perché si ritrova Faccia a faccia con il morto de l’Uomo Ragno: “Era diverso da Braccio di Ferro…”.


Alla luce degli strapopolari cinecomic sembra un’ovvietà: certo che Peter Parker non è Braccio di Ferro. Ma perché il nostro amichevole Spider-Man di quartiere ha toccato il cuore dei piccoli Morozzi di tutto il mondo? D’accordo, i superpoteri esercitano da sempre un certo fascino sulla mente di bambino, quando il confine fra possibile e impossibile è ancora labile. Eppure c’è una ragione meno pirotecnica se i “sups” continuano ad afferrare la pancia della psiche collettiva: sono umani. E non perché debbano appartenere necessariamente alla specie umana; no, sono umani perché sono passionali, provano emozioni e sentimenti, proprio come noi: Peter Parker è “un maestro di vita”, continua Morozzi, perché è prima di tutto uno sfigato… e ne soffre.


La vulnerabilità ci lega ai nostri eroi. Anzi, con la crisi della postmodernità, tanto più i buoni sono “grigi”, tanto più si accende la loro stella – siamo già alla quarta stagione di The Boys, senza contare lo spin-off Generation V. Ma quella degli eroi umani troppo umani è davvero una novità? Forse no se guardiamo ai pantheon delle varie mitologie: gli antichi dèi ne hanno fatte di porcate… Certo, ci sono divinità più oscure di altre, ma ciò che conta è che i proto-supereroi non sono entità ultramondane: come gli specchi magici di un luna park, per quanto deforme, è sempre la nostra immagine che ci restituiscono, di nessun altro.


Talvolta ce ne dimentichiamo. Cerchiamo ispirazione in esseri superiori, ne bramiamo il potere per sgominare i supervillain della vita quotidiana e non ci rendiamo conto di cercare noi stessi. Ecco perché trovo fondamentale l’apologia del fumetto di Morozzi al Salone Internazionale del Libro: come lettore, prima ancora che autore, esalta la qualità creativa dell’errore. Batman che sopravvive a una caduta dalla stratosfera; Superman che da “tizio forte” finisce con lo spostare la Terra; Al Jordan che vola nello spazio quando la precedente Lanterna Verde muore nello schianto di una navicella spaziale:

 

Ho imparato che l’assurdo o il cliché funziona se lo spieghi. Anche un apparente errore può essere trasformato dall’umorismo: è il patto con il lettore. “Trasformazione”, “umorismo”, “patto”: gli ingredienti necessari a costruire un’autentica finzione. Ecco la mente di bambino all’opera, impegnata a gettare un ponte invisibile fra ciò che è e ciò che non è; lo sapeva anche un altro eterno fanciullo, Philip K. Dick, quando scriveva: Si tratta in sostanza di un’opinione, poiché ciò che è possibile e ciò che non è possibile non è oggettivamente noto, ma è piuttosto una convinzione soggettiva da parte dell’autore e del lettore.

 

In questa lettera del 1981, il buon Phil parlava di fantascienza: ma non è la stessa cosa? In fondo, la fascinazione per i mondi alternativi, tutti i “what if” a cui ci ha abituati il Marvel Cinematic Universe, parla del bisogno di restare in sospeso fra voler spiegare il mondo e accettare che i conti potrebbero non tornare del tutto…


Le vignette di uomini e donne in costume – ridicole per chi prende la realtà troppo sul serio – rappresentano l’eredità di un’infanzia non solo individuale: sono l’ennesimo tentativo di appagare quella sete di riti che è propria dell’Homo sapiens. E allora continuiamo a guardare le stelle in cerca degli eroi di questo e dell’altro mondo; ammiriamo i loro mantelli, assorbiamone i raggi cosmici, piangiamo la loro caduta e gioiamo del loro trionfo. Continuiamo a guardare il cielo perché gli dèi non sono tramontati: hanno solo cambiato maschera.

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