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Edoardo Bove, un sogno da difendere e una vita da reinventare. «Smettere di giocare a calcio per me è inconcepibile»

Rebecca Manganaro

Colpito da un malore in campo, Bove affronta la sfida più dura: difendere il suo sogno oltre ogni ostacolo

Edoardo Bove durante l'intervista a Bsmnt
Edoardo Bove durante l'intervista a Bsmnt

Il calcio non è solo uno sport. È passione, identità, vita. E quando un istante può cancellare tutto, il dolore è insopportabile. Lo sa bene Edoardo Bove, giovane talento dell'Appio Latino, che lo scorso 1 dicembre ha visto il suo destino cambiare drasticamente. Durante Fiorentina-Inter, il suo cuore ha tremato, il suo corpo ha ceduto, e per un attimo il tempo si è fermato.


Il malore che ha ribaltato tutto

Il cronometro segnava poco meno del ventesimo minuto quando Bove è crollato a terra. «Ricordo i primi quindici minuti della partita, il gol annullato a Lautaro, la testa che cominciava a girarmi. Il cuore lo sentivo battere normalmente, ma qualcosa dentro di me non andava. Ho provato a rialzarmi, poi il buio». Sono queste le parole di Bove rilasciate in una lunga intervista a Bsmnt, il podcast del dj Gianluca Gazzoli.


Attimi di terrore. I compagni accorrono, lo stadio trattiene il fiato. L’ambulanza entra in campo, trasportandolo d’urgenza al Careggi. Quando riapre gli occhi, è già in ospedale. «Non ricordavo nulla. Mi hanno raccontato che in ambulanza ero indemoniato, come se lottassi per rimanere aggrappato alla mia vita. Ho voluto rivedere il momento in cui ho perso i sensi. All'inizio non mi ha turbato, ma con il tempo è stato come tornare lì, in quel preciso istante. Ed è stato devastante».


Il defibrillatore, una sentenza amara

Poi la diagnosi: un defibrillatore sottocutaneo, un salvavita che però, in Italia, equivale a una condanna sportiva. «I medici mi hanno detto che era la scelta migliore. Sto imparando a conviverci: lo sento quando dormo su un lato, quando mi muovo in un certo modo. Eppure il problema più grande non è il fastidio fisico, ma quello che questo significa per la mia carriera».


In Italia, con un defibrillatore, non si può giocare. L’unica via d’uscita è seguire l’esempio di Christian Eriksen, che dopo un episodio simile ha trovato rifugio all’estero. «Christian mi ha fatto sentire la sua vicinanza. E io lo capisco, perché so cosa significa avere un sogno e sentirselo strappare via. Per questo non posso arrendermi. Se un giorno potrò toglierlo, tornerò a giocare ovunque. Se dovrò tenerlo, cercherò una nuova strada all'estero. Lo devo a me stesso, a tutti i sacrifici che ho fatto. Sono ancora giovane, mollare non è un'opzione».


Il tormento

Ma dietro la determinazione si nasconde una paura sottile, un’ombra difficile da scacciare. «So chi sono con il calcio, ma senza ho paura di scoprirlo». Un vuoto che solo chi vive per il pallone può comprendere. La speranza, però, resta viva. «Farò altre visite, ci sarà un momento in cui capirò davvero cosa mi aspetta. Nulla è ancora scritto. E questo mi fa sperare».


Nel frattempo, Firenze lo ha accolto come un figlio. «Mi chiedo spesso: perché a me? Perché gli altri possono giocare e io no? Ma poi penso a quanto sono stato fortunato. Qui mi hanno dato un amore immenso. E quando mi dicono che Davide Astori, da lassù, mi ha tenuto qui, voglio crederci anche io».

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